Non porto MAI niente a termine. I quattro passi per raggiungere i propri obiettivi


È un fenomeno più comune di ciò che si pensa, quello di passare da un progetto all’altro, nella vita privata come nel lavoro, senza concludere nulla, nonostante al suo inizio vi fosse un grande entusiasmo.
Alcuni autori della psicologia odierna parlano di una sindrome di grandezza tipica dell’onnipotenza dei bambini, i quali si credono senza limiti. Proprio come i bambini, infatti, le persone che non concludono i loro progetti sembrano non essere educati alla frustrazione dell’attesa necessaria per portarli a termine, alla disciplina del dovere delle scadenze e alla cultura di un impegno concreto.
Non andare fino in fondo permette di sfuggire ad una prova di verità che è il confronto con il reale; evitando di confrontarsi con le proprie effettive capacità si lascia aperta la credenza che tutto sia possibile. È quindi un modo per non rimanere mai delusi, proteggendosi dai giudizi esterni e dal proprio stesso giudizio, quello interno, quello che fa più male.
Una situazione tipica è rappresentata dal collega, o amico, che preannuncia un avanzamento di carriera che in seguito non arriverà mai. Non basta desiderare, ma avere un obiettivo significa proiettare nel tempo quello stesso desiderio e fare tutto quanto è possibile per realizzarlo confrontandosi con le proprie reali competenze.

Cosa si nasconde dietro la mancanza di obiettivi

Spesso nei percorsi psicoterapeutici che conduco mi rendo conto che le persone comunemente definibili inconcludenti, sono spesso individui che non ancora scoprono tutte le proprie risorse oppure che fanno errate valutazioni di quante energie sono state realmente investite nel progetto intrapreso. La politica dell’attribuire i propri fallimenti alla società complessa in cui viviamo o, comunque, a qualcuno diverso da sé, crea una stasi ed allontana dalla meta.
Senza poi considerare il fattore tempo. Nelle situazioni sopra descritte il costo maggiore è quantificabile in termini di tempo, infatti possono passare anche anni in attesa di un risultato che poi non arriverà mai perché.
Arrivare al termine significa anche sapersi separare, un’azione di cui si fa esperienza nell’infanzia durante gli eventi che coinvolgono madre e figlio, e che spesso sono anche, in qualche modo, traumatici (svezzamento, assenze genitoriali, primi allontanamenti). Riecheggia quindi un bisogno di sfuggire a questo finale, a mantenere il percorso incompiuto, quasi per evitare poi una “perdita”.
I passaggi per superare questa impasse sono rintracciabili nei verbi desiderarepianificareavanzare in progressione, immaginare il dopo e concedersi una ricompensa.
Tutte “cose da grandi” che paradossalmente però lasciano spazio al bambino che è in ognuno di noi.

Dott.ssa Ivana Siena


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