Non porto MAI niente a termine
È un
fenomeno più comune di ciò che si pensa, quello di passare da un progetto
all’altro, nella vita privata come nel lavoro, senza concludere nulla,
nonostante al suo inizio vi fosse un grande entusiasmo.
Alcuni autori della psicologia odierna parlano di una sindrome di grandezza tipica
dell’onnipotenza tipica dei bambini, i quali si credono senza limiti. Proprio
come i bambini, infatti, le persone che non concludono i loro progetti sembrano
non essere educati alla frustrazione dell’attesa necessaria per portarli a
termine, alla disciplina del dovere delle scadenze e alla cultura di un impegno
concreto.
Non andare fino in fondo permette di sfuggire ad una prova
di verità che è il confronto con il reale; evitando di confrontarsi con le
proprie effettive capacità si lascia aperta la credenza che tutto sia
possibile. È quindi un modo per non rimanere mai delusi, proteggendosi dai
giudizi esterni e dal proprio stesso giudizio, quello interno, quello che fa
più male.
Una situazione tipica è rappresentata dal collega, o
amico, che preannuncia un avanzamento di carriera che in seguito non arriverà
mai. Non basta desiderare, ma avere un obiettivo significa
proiettare nel tempo quello stesso desiderio e fare tutto quanto è possibile
per realizzarlo confrontandosi con le proprie reali competenze.
Cosa si nasconde dietro la mancanza di obiettivi
Spesso nei percorsi psicoterapeutici che conduco mi rendo
conto che le persone comunemente definibili inconcludenti, sono spesso
individui che non ancora scoprono tutte le proprie risorse oppure che fanno
errate valutazioni di quante energie sono state realmente investite nel
progetto intrapreso. La politica dell’attribuire i propri fallimenti alla
società complessa in cui viviamo o, comunque, a qualcuno diverso da sé, crea
una stasi ed allontana dalla meta.
Senza poi considerare il fattore tempo. Nelle situazioni
sopra descritte il costo maggiore è quantificabile in termini di tempo, infatti
possono passare anche anni in attesa di un risultato che poi non arriverà mai
perché.
Arrivare al termine significa anche sapersi separare, un’azione di cui si fa
esperienza nell’infanzia durante gli eventi che coinvolgono madre e figlio, e
che spesso sono anche, in qualche modo, traumatici (svezzamento, assenze
genitoriali, primi allontanamenti). Riecheggia quindi un bisogno di sfuggire a
questo finale, a mantenere il percorso incompiuto, quasi per evitare poi una
“perdita”.
I passaggi per superare questa impasse sono rintracciabili
nei verbi desiderare, pianificare, avanzare in progressione, immaginare il dopo e
concedersi una ricompensa.
Tutte “cose da grandi” che paradossalmente però lasciano
spazio al bambino che è in ognuno di noi.
Dott.ssa Ivana Siena
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